Published on Agosto 9th, 2020 | Luca Cadez
0Il passaggio a Nordest: dagli Argonauti ai barbari, alle guerre del Novecento
Dario Stasi
I passi alpini Ad Pirum e Preval (Razdrto) sono le due porte d’entrata nella valle del Vipacco/Vipava. Sono i passi che mettono in comunicazione l’Est dell’Europa con la penisola italiana. Guardando da Gorizia, l’avallamento del primo si scorge a nord del massiccio del monte Nanos e l’altro a sud. Sono i passi meno elevati dell’intero arco alpino e perciò di facile transito. Ad Pirum si trova all’altezza di m. 867 ed è il passo più antico, con il percorso più breve. Preval invece è meno alto (m. 577) ma l’itinerario è più lungo di circa 30 km. ed è da lì che, oggi, passa l’autostrada per Lubiana. Qui di seguito ripercorriamo sinteticamente e cronologicamente i principali dati storici e i passaggi in questi luoghi di popoli, eserciti, personaggi storici famosi, mercanti, pellegrini, predoni e le tracce che hanno lasciato sul territorio.
Giasone e gli Argonauti
Secondo la leggenda da qui transitarono gli Argonauti guidati dall’ eroe greco Giasone che, dopo aver trovato e trafugato il Vello d’oro nella Colchide, fuggirono inseguiti dai Colchi navigando attraverso il Danubio e i suoi affluenti Sava e Ljubljanica fino all’odierna Vrhnika (l’antica Nauporto); affrontarono poi i passi alpini con le navi portate a spalla o fatte rotolare su tronchi di alberi e arrivarono alle foci del Timavo e al mare Adriatico da cui poi proseguirono il lungo viaggio nel mare Mediterraneo fino al ritorno in patria. Quello di Giasone e degli Argonauti è un mito fondante, una “storia” affascinante espressione della cultura greca. L’eroe, l’impresa ritenuta impossibile di trovare il Vello d’oro, il viaggio avventuroso con la nave Argo rappresentano, al pari del viaggio di Ulisse, l’inizio delle scoperte geografiche e della “ricerca” in generale che caratterizzano la civiltà occidentale. Anche la tappa presso le bocche del Timavo conferisce un significato sacro e di mistero all’impresa degli Argonauti.
La via dell’ambra, dal mar Baltico ad Aquileia
Avvolta nella leggenda ma anche documentata storicamente, l’antica “Via dell’ambra” transitava da questi stessi valichi. L’ambra, una resina fossile di colore variabile dal giallo al rosso o anche al verde, era molto preziosa nell’antichità. Arrivava dai luoghi di raccolta sulle coste del mar Baltico (era detta “l’oro del nord”) fino al mare Adriatico da cui successivamente veniva portata nelle città italiane o in medio oriente. Era considerata una “pietra” preziosa a cui venivano attribuite proprietà magiche e terapeutiche ed era utilizzata per creare gioielli, collane, statuine, amuleti. Ad Aquileia attraverso questa strada arrivavano ingenti quantità di ambra grezza che veniva successivamente lavorata nelle botteghe artigiane. Nel Museo archeologico nazionale della città romana è possibile ammirare una ricchissima collezione di queste “ambre”.
La via Gemina
Ed è in epoca romana che questo territorio viene considerato di grande importanza strategica. Per cui Roma decide la fondazione e la costruzione della città di Aquileia, dopo aver cacciato la popolazione dei Celti taurisci, provenienti sempre da nord est, che nella stessa zona avevano costruito un loro Oppidum. Da allora la valle del Vipacco e i passi alpini verso l’Oriente diventano l’itinerario (poi via Gemina) battuto dalle legioni di Cesare e di Ottaviano Augusto in marcia verso il Norico e la Pannonia (odierne Austria e Ungheria) e quelle di Traiano alla conquista della Dacia (Romania) e di altri imperatori romani diretti al Limes del Danubio. Lungo questo percorso si svolge anche la vicenda di Massimino il Trace (238 d.C.) il quale, proclamato imperatore in Pannonia e successivamente spodestato dal senato di Roma, marcia minacciosamente con il suo esercito verso la capitale dell’Impero ma viene fermato prima sull’Isonzo e poi definitivamente ad Aquileia, sotto le cui mura trova la morte per mano dei suoi stessi generali. E arrivano gli anni delle cosiddette “invasioni barbariche. Della via Gemina scrive lo storico sloveno Peter Stih: ”Questa strada ha avuto una grande importanza strategica durante tutta l’antichità e anche durante il medioevo. Su di essa marciarono nel IV secolo, diretti verso l’Italia, i pretendenti al trono imperiale”.
Miliari, cippi e lapidi funerarie
Lungo la via Gemina oltre a numerosi cippi, miliari e are votive sono state trovate anche molte lapidi per lo più funerarie, secondo l’usanza romana di seppellire i morti ai margini delle strade. Molte di queste lapidi sono state ritrovate nel greto dell’Isonzo fra le località di Mainizza e Savogna. La maggior parte di quelle ritrovate erano servite a ricostruire il ponte distrutto dagli Aquileiesi nel 238 d.C. per impedire l’avanzata dal Limes danubiano verso la città dell’Imperatore Massimino il Trace. Ora si trovano custodite in parte nel museo della civiltà contadina di Farra, in parte esposte (due are votive) nel museo di Aquileia e molte altre in un deposito dei musei provinciali di Gorizia. Un gruppo di nove miliari romani anche di notevoli dimensioni sono stati ritrovati recentemente nel greto del Torre a Villesse.
La battaglia del Frigido
Nel 394 d.C. fra i pretendenti al trono imperiale spiccano Eugenio e Teodosio, l’uno pagano proveniente dall’Italia fa elevare sul passo di Piro le insegne di Giove mentre l’altro, cristiano, risale la penisola ba canica proveniente da Costantinopoli. Si scontrano nella piana di Aidussina nella famosa battaglia del Frigido o “battaglia della bora” chiamata anche così perchè, secondo lo storico Claudiano, il vento impetuoso alzatosi improvvisamente deviava e fermava le frecce dei soldati di Eugenio. Così vinsero definitivamente i cristiani in quella che è stata l’ultima battaglia contro i pagani.
Attila e Teodorico
Continua lo storico Stih:”Su questa strada irruppero nel V secolo gli Unni di Attila e gli Ostrogoti di Teodorico. Nel VI secolo vi transitarono, per raggiungere la loro nuova patria, i Longobardi; e nel VII secolo, durante le loro incursioni in Friuli, se ne servirono anche gli Avari”. I Visigoti di Alarico nel 410 d.C. risparmiano Aquileia ma mettono a ferro e fuoco Roma. Attila distruggerà Aquileia nel 452 d.C., una data cruciale nella nostra storia. Teodorico diventerà “Re d’Italia” dopo aver sconfitto il suo rivale Odoacre (che aveva deposto l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo) prima sull’Isonzo e poi a Verona. Poi arrivano i Franchi e gli Ungari e altri “barbari”. Insomma, come sottolinea il grande storico illuminista inglese Edward Gibbon:“Le sorti di Roma furono decise in questo angolo dell’Impero”.
I Longobardi e Alboino
Ma il passaggio dei Longobardi da questi luoghi nel 568 d.C. per giungere in Italia, il paese che avevano agognato e scelto per viverci, ha un qualcosa di grandioso, di epico. Immaginiamo questi valichi e questa valle attraversati da centinaia di migliaia di guerrieri dalle lunghe barbe (da cui il loro nome) e i lunghi capelli biondi, con le loro armi, sui loro cavalli o a piedi, le centinaia di carri con le donne, i bambini e i vecchi e le masserie, decine di migliaia di buoi, di pecore e capre. Una migrazione biblica che cambierà la storia d’Italia. Come scrive Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. Alboino, il re che guida i Longobardi in Italia arrivato sul monte che oggi chiamiamo Nanos, guarda la valle ai suoi piedi e in lontananza la pianura friulana e dice solennemente agli uomini del suo seguito: ”Questa è la mia terra”. Da allora quel monte venne chiamato anche Mons Regis, Monte Re.
Gli Avari e gli Ungari
Nel IX e X secolo le ripetute incursioni prima degli Avari e poi degli Ungari compiono tali massacri e tali distruzioni da rendere il territorio friulano dall’Isonzo al Livenza una terra devastata (Vastata Hungarorum, ancora oggi la strada da Palmanova a Oderzo è chiamata Strada ongaresca). Negli anni successivi i Patriarchi di Aquileia provvedono al ripopolamento del Friuli facendo affluire coloni slavi dal Carso e zone limitrofe nei paesi e nei campi distrutti. Molti toponimi slavi nel medio Friuli e nell’ Isontino testimoniano ancora la loro presenza (Belgrado, Santa Marizza, Gradiscutta, Versa Sclabonica, Gorizzo, Goricizza, ecc). In questo contesto (1001) va probabilmente considerato il documento imperiale in cui per la prima volta appare il nome di Gorizia. Decaduta Aquileia nuove città e castelli, come Udine e Gorizia, prendono il suo posto come baluardi dai pericoli che provengono da oriente.
Fortezze, castellieri e tabor
Come abbiamo visto, dalla fondazione di Aquileia all’epoca tardo antica, al medioevo e fino al XVI secolo e oltre, in questi territori vengono edificate strutture difensive di vario tipo. Da quelle romane, come il grande complesso del Claustra Alpium Iuliarum sul valico di Piro al Castra di Ajdovščina ai castelli, che sorgono in tempi diversi (per lo più al posto di antichi castellieri), come quelli di Vipacco (oggi in rovina), Štanjel, Rihemberk, Gorizia, Rubbia, Dobrovo, Šmartno e altri e fino alle città fortezza come Vipavski Križ, Gradisca, Palmanova. A queste strutture fortificate, edificate da entità statali come l’Austria e Venezia o da famiglie di facoltosi nobili locali, vanno aggiunte anche fortificazioni più semplici, popolari (fortezze rifugio che sorgono intorno alle chiese), come i tabor, del tempo delle incursioni dei Turchi, di cui si trovano numerosissime tracce nella valle del Vipacco (Dornberk, Vrabče, Vitovlje, Ravne, ecc.). Nello stesso periodo, sempre per difesa dai Turchi ma ancor prima (dagli Ungari, Avari, ecc.) nei paesi del Goriziano e della pianura friulana si formano attorno alle chiese le “cente”, un sistema di case disposte per lo più attorno a una chiesa e recintate, come a Salcano, Lucinico, Mossa, Romans, Capriva, Cormons, ecc.
Crociati e pellegrini
Anche i Crociati in viaggio per liberare il Santo Sepolcro in Terrasanta attraversano la valle del Vipacco provenienti dalla Francia e dalla pianura padana. Nella prima crociata (1096) il nobile Raimondo da Tolosa (era profondamente religioso e desiderava morire in Terrasanta) guida un numeroso esercito attraverso la Dalmazia dove si distingue per i saccheggi e i massacri compiuti lungo il suo percorso ed è a sua volta contrastato dagli abitanti della zona. Reduce dalla terza crociata nel 1192, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone sbarca nei pressi di Aquileia e viene riconosciuto e imprigionato dal conte di Gorizia su incarico del duca d’Austria, che lo libererà solo dopo il pagamento di un riscatto. A testimonianza del tempo delle crociate e dei pellegrinaggi in Terrasanta presso il valico Ad Pirum si possono ancora vedere i muri e le fondamenta di una piccola chiesa che si dice costruita dai crociati (dedicata poi a Santa Gertrude). Mentre a San Nicolò di Levata nel comune di Ruda lungo l’antico percorso della via Gemina sorge ancora l’edificio oggi in rovina della Commenda, un centro di accoglienza e ospedale costruito dai Templari per i pellegrini diretti in Terrasanta. I rersponsabili della Commenda avevano anche l’obbligo di provvedere alla manutenzione della strada, detta anche “Pedrata” (per la presenza dell’antico selciato romano) e “Levata” (rialzata per difesa dalle alluvioni).
Mercanti e predoni
Ma la stessa strada era battuta fin dall’epoca romana anche dai numerosi mercanti che partivano da Aquileia e vi arrivavano con le loro merci come racconta lo storico Erodiano: ”Ad Aquileia le merci venivano trasportate dall’interno o dai fiumi per essere scambiate con le navi mercantili; inoltre le merci venivano trasportate dal mare alla terra ferma a secondo delle necessità. L’agricoltura dell’entroterra aveva numerosi addetti alla produzione di vino e ne esportava in grandi quantità verso i mercati che non potevano coltivare la vite. Alcuni anni fa è stata ritrovata a Torino una lapide funeraria che ricorda il mercante Lucio Tettieno Vitale nato ad Aquileia, cresciuto ad Emona (Lubiana) e morto a Julia Augusta Taurinorum (l’antico nome di Torino menzionato per la prima volta proprio in quella lapide). Nell’epigrafe si legge che il suo lavoro di mercante si svolgeva lungo il Po, la costa dell’Adriatico fino ad Aquileia e da qui attraverso il valico Ad Pirum fino alla Sava affluente del Danubio. Era praticamente l’itinerario previsto oggi come parte del Corridoio 5. Da un’altra lapide funeraria trovata nelle vicinanze di Ajdovščina e conservata nel piccolo museo della cittadina apprendiamo invece che il centurione romano Antonio Valentino della XIII Legione “Gemina” è stato ucciso in un’imboscata tesagli da un gruppo di ladroni (“interfecto a latronibus”) lungo la strada.
Le incursioni dei Turchi
A partire dal XIV secolo e fino agli inizi del XVI nei territori della Contea di Gorizia e limitrofi hanno luogo diverse incursioni dei Turchi ottomani provenienti dalla penisola balcanica. Questi soldati predoni scendono dai passi alpini e dilagano nella valle del Vipacco, in Friuli e nei più vicini territori del Veneto. Sono formazioni di cavalleria leggera (akingi) che compiono veloci azioni di razzia e saccheggio depredando e uccidendo le popolazioni praticamente indifese. Si tratta di un’altra sciagura proveniente da Oriente. Si ha notizie che nell’incursione del 1499 i Turchi hanno messo a ferro e fuoco oltre trecento paesi friulani uccidendo più di 15mila abitanti. Nella chiesa parrocchiale di Tricesimo è murata una lapide che ricorda l’incursione turca del 1477. Pare che i conti di Gorizia abbiano evitato le stragi dei Turchi offrendo loro la possibilità di accamparsi nel territorio da Lucinico a Cormòns. Pasolini ha scritto un dramma teatrale intitolato “I turcs tal Friul” mandato in onda recentemente anche in televisione (Rai 5).
Il male viene da “Nordest”
Dopo gli eserciti dei barbari e le scorrerie dei predoni turchi, un’altra “calamità” giunge dai territori del Nordest d’Europa e attraversa i nostri passi alpini. Ma senza armi, senza violenze. Stavolta sono le idee e i libri che arrivano da Lubiana con l’asinello di Primož Trubar, canonico e predicatore di quella città, traduttore della Bibbia in sloveno, protagonista della diffusione del protestantesimo di Lutero in Slovenia (allora Carniola) e anche nel Goriziano. Trubar ha grande seguito soprattutto fra i nobili locali di lingua tedesca dai quali viene chiamato a predicare a Gorizia. E predica in tedesco, sloveno e italiano a Santa Croce di Vipacco (Vipavski Križ), nel castello di Rubbia e a Gorizia nella casa del nobile Annibale d’Eck (conosciuta come casa Volcher nell’attuale piazza Cavour). Il luteranesimo si diffonde a macchia d’olio e fa presa anche su preti, mercanti, artigiani, soldati. La reazione della Chiesa dopo il Concilio di Trento non si fa attendere: molti seguaci di Trubar vengono esiliati, si procede con le conversioni forzate, i roghi di libri, la distruzione di immagini, pitture, sculture che ricordano in vario modo la “peste” protestante. Anche l’Inquisizione allunga i suoi tentacoli e colpisce oltre i confini della Serenissima. Effetto immediato della Riforma protestante a Gorizia è un formidabile “fuoco di sbarramento” della Controriforma cattolica che fa scendere in campo un esercito di religiosi in chiese, conventi, collegi e ospedali: i Capuccini, i Gesuiti, i Carmelitani, le Clarisse, i Fatebenefratelli, le Orsoline. Nel Seicento a Gorizia si ha una densità di religiosi più alta di tutto l’Impero e molto maggiore della media in Italia.
La guerra Gradiscana
La città fortezza di Palmanova viene costruita alla fine del Cinquecento dal Veneziani nominalmente per fronteggiare i Turchi ma è anche intesa come baluardo nei confronti degli Asburgo, che già possiedono quella di Gradisca. E così i rapporti fra la Repubblica di Venezia e gli Asburgo, sempre tesi, giungono al conflitto armato nel 1615, in quella che sarà chiamata guerra gradiscana o guerra degli Uscocchi. Ma ormai mura, torri, fortilizi e varie opere di difesa fin qui realizzate poco possono di fronte ad armi moderne come nuove artiglierie e potenti esplosivi. Quella guerra è giudicata dagli storici come inconcludente e dispendiosa, oltre che atroce come tutte le guerre. In questo periodo storico posiamo considerare che il confine naturale, geografico, rappresentato dai nostri passi alpini diventa un confine geopolitico, inteso nel senso che oggi diamo al termine confine. Un confine però ancora non ben definito fra i due stati e continua fonte di conflitti e rivendicazioni territoriali.
Il confine sull’Isonzo
Nel corso del Settecento si hanno diversi tentativi di dirimere le controversie di confine tra Venezia e l’Austria. Viene anche soppresso l’antico Patriarcato di Aquileia e diviso in due arcidiocesi, Udine e Gorizia, l’una in Veneto e l’altra in Austria. Ma la repubblica Serenissima è in evidente decadenza politica e militare, fino a che nel 1797 viene sancita la fine dello stato veneto. E’ l’epoca napoleonica e un nuovo stato pochi anni dopo viene creato dai Francesi, le Province illiriche, un territorio che comprende la Carinzia austriaca, Gorizia, Trieste, Lubiana (che ne è la capitale), l’Istria e la Dalmazia fino a Ragusa/Dubrovnik. Il confine fra i due nuovi stati napoleonici (Regno d’Italia e Province illiriche) corre per intero lungo il corso dell’Isonzo, dalla sorgente alla foce. Quello delle Province illiriche è un tipico statocuscinetto, nella fattispecie un antemurale militare (un nuovo tipo di fortezza) per tenere a bada gli imperi asburgico e ottomano che controllano la penisola balcanica. Un territorio che avrà vita breve come entità statale ma che per diversi aspetti (non quello nazionale) ancora oggi conserva una certa omogeneità.
I nazionalismi
Nella prima metà dell’Ottocento nascono nuove visioni del mondo imperniate sui valori della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fraternità ma si diffonde anche l’idea di nazione. Dopo le vicende napoleoniche la diffusione di questa idea riguarda in primo luogo gli italiani di confine che sentono il richiamo del Risorgimento nazionale. Ma anche le popolazioni slave, e soprattutto gli sloveni che vivono al di qua delle Alpi, sentono questo forte richiamo ideale. Vengono quindi successivamente a formarsi le basi di una contrapposizione che dura in vario modo fino ai giorni nostri. E il confine politico in divenire diventa l’oggetto principale del contendere fra irredentisti che anelano all’Italia da una parte, panslavisti e in particolare il movimento dei “tabori” in Slovenia dall’altra. Continua e si aggrava il problema del confine orientale d’Italia e l’idea di nazione si trasforma in nazionalismo, causa prima delle guerre del XX secolo.
Il Novecento
Nel XX secolo in questo territorio si sono concentrate e acuite tutte le tensioni e i conflitti che hanno attraversato l’Europa intera e hanno determinato il tracciato dell’attuale confine: prima guerra mondiale, fascismo e nazismo, seconda guerra mondiale, comunismo, guerra fredda. Durante la cosiddetta “guerra fredda” gli stati maggiori degli eserciti italiano e della Nato hanno armato strategicamente quella che è stata chiamata “Soglia di Gorizia” a difendere la quale sono stati concentrati nel Friuli e nell’Isontino i due terzi delle forze armate italiane, con vaste servitù militari, bunker di vario tipo, nuove caserme. Uno stravolgimento del territorio non ancora cancellato. Al tempo si è ipotizzato anche l’uso di mine atomiche da parte della Nato per fermare o ritardare la possibile avanzata dei migliaia di carri armati dell’URSS e degli altri paesi del Patto di Varsavia (il “sacrificio” nucleare del Goriziano) pronti all’invasione del territorio italiano. Su questa ipotesi permane ufficialmente il segreto militare. Ma recenti rivelazioni sull’esistenza di oltre 60 rifugi antiatomici nella città di Nova Gorica in Slovenia (diversi ancora ben visibili) confermerebbero questa ipotesi, che oggi ha dell’incredibile. Per quanto riguarda una sintesi della storia del Novecento goriziano rimandiamo ai testi e alle foto della mostra “Il secolo lungo” che abbiamo allestito nel 2014 al Museo di Santa Chiara a Gorizia, nel 2015 nella Biblioteca del Senato della Repubblica a Roma, poi nuovamente a Gorizia nella Biblioteca Statale Isontina. Dal 3 al 31 luglio di quest’anno la mostra sarà visibile anche nella Bibioteca “France Bevk” di Nova Gorica. Il catalogo completo della mostra è stato pubblicato nel n. 105 di Isonzo Soča.