Published on Aprile 7th, 2021 | Luca Cadez
0Lojze Bratuž non era un antifascista?
di Vera Tuta Ban
traduzione di Martina Clerici
La poetessa goriziana Ljubka Šorli rimase vedova in giovanissima età: il 19 febbraio 1937, nel giorno stesso del suo ventisettesimo compleanno, consegnò alla terra l’amato marito Lojze Bratuž, morto il 16 febbraio dopo sei settimane di penosa agonia per le conseguenze di una brutale aggressione squadrista. Eppure, quando nel dopoguerra inoltrò domanda per l’assegno di benemerenza riconosciuto alle vittime della persecuzione fascista, non gliene fu riconosciuto il diritto poiché, si sostenne, l’attività politica antifascista del Bratuž non era provata.
Sul serio? Certo, era un compositore, organista e direttore di coro, e non risultava inquadrato in nessun movimento attivista di opposizione. Ma a questo punto si apre una questione interessante: perché mai, allora, la sua persona dava così tanta noia agli organi fascisti da spingerli a vessarlo crudelmente? Perché ne fu disposta la liquidazione? La risposta ce la forniscono svariati documenti riemersi dagli archivi della Prefettura di Gorizia.
Ai primi del gennaio 1932 Lojze Bratuž fu arrestato senza alcuna imputazione e sottoposto a un regime carcerario durissimo: non gli era concesso avere carta né lapis, non uno spartito, figurarsi un libro, niente di niente. Non essendo stata formulata un’accusa, non fu celebrato alcun processo e, trascorsi sei lunghi mesi, fu rimesso in libertà al netto di ogni spiegazione. In quel contesto, fu compilata dalla Prefettura una scheda biografica del detenuto che merita riportare fedelmente:
BERTOSSI (già BRATUS) Luigi [omissis]. Nazionalista sloveno, antifascista.[omissis]
Appartiene a famiglia di nazionalità e sentimenti sloveni.
È ispettore dei cori ecclesiastici dell’arcidiocesi di Gorizia ed insegna musica e canto nel seminario minore di questa città. Ha carattere mite, intelligenza non comune e cultura abbastanza elevata avendo compiuto gli studi magistrali, per cui conseguì nel 1920 il diploma di maestro elementare. Insegnò per diversi anni nelle scuole elementari di questa provincia ed in ultimo a Cernizza Goriziana. Trasferito per ragioni di opportunità politica nell’aprile del 1929 a Manoppello di Pescara, nel luglio dello stesso anno diede le dimissioni e fu nominato ispettore dei cori ecclesiastici dall’Arcivescovo di Gorizia Mons. Borgia Sedej.
Trae i mezzi di sostentamento dalle suesposte occupazioni. Frequenta la compagnia di allogeni in genere e dei preti, in particolare noti per i loro sentimenti antitaliani e come propagandisti del nazionalismo sloveno.
Nei suoi doveri verso la famiglia si comporta bene. Non gli sono state affidate cariche amministrative o politiche.
Segue i principi dell’associazione od unione demosociale cristiana tra gli sloveni facente capo all’ex deputato Besedniak dott. Egilberto e per cui considerato uno degli esponenti del clericalismo sloveno della provincia.
È in corrispondenza epistolare con insegnanti nazionalisti slavi fuoriusciti residenti all’estero, dove non ha mai dimorato.
Appartiene all’Unione insegnanti sloveni “Usciteljska Zveza” e nel 1924 fece parte ancora, come insegnante di musica e canto corale, all’associazione culturale cattolica slovena “Mladica”.
Non ha collaborato né collabora alle redazioni di giornali.
Non consta che riceva o spedisca giornali o stampe a carattere antinazionale, ma è ritenuto capace di farlo.
È attivo propagandista dell’irredentismo slavo fra l’elemento allogeno, su cui ha grande ascendente, rendendosi così pericoloso per l’ordine sociale dello Stato al cui sovvertimento mira.
Ecco in cosa consisteva l’immane colpa di Bratuž: la gran considerazione di cui godeva, peraltro a buon diritto, lo rendeva “pericoloso socialmente per l’ordine politico dello Stato”. Tanto bastò a motivare le angherie delle autorità nei suoi confronti. Già nell’aprile del 1929 Bratuž da maestro elementare fu trasferito forzatamente a Manoppello negli Abruzzi, a tutti gli effetti una sorta di confino. Rientrato a Gorizia con l’aiuto dell’arcivescovo Sedej entrò nel mirino delle bande nere. Nell’ottobre del 1930, quando in seguito all’assassinio del maestro italiano Sottosanti in città scoppiarono dei disordini, gli squadristi aggredirono Bratuž e lo pestarono selvaggiamente. Invece di perseguire i responsabili, le autorità piantonarono la vittima in ospedale. D’ora in avanti non persero occasione per perquisirgli casa e gli resero la vita impossibile.
Nel 1931 Bratuž perse il suo appoggio più saldo: l’arcivescovo Sedej, già costretto alle dimissioni morì subito dopo, lasciandolo in balia dei suoi aguzzini che si imbaldanzirono. Sta di fatto che nel gennaio successivo Bratuž fu recluso arbitrariamente e dopo sei mesi rimesso in libertà con ammonizione, provvedimento che comportava il divieto di uscire di casa la sera, di intrattenersi per strada e simili. Essendosi soffermato un giorno con l’amico giornalista Polde Kemperle in Corso, fu nuovamente incarcerato per altri tre mesi. Poco dopo il suo rilascio, agli inizi di dicembre la madre morì di crepacuore: terminato il funerale, molto partecipato, Bratuž fu convocato in questura perché sospettato di aver sfruttato le esequie per camuffare una manifestazione contro il regime.
Se le autorità temevano l’influenza di Bratuž da vivo, lo ritennero tanto più pericoloso alla sua morte da martire. Il popolo era in fermento. Nell’intera Primorska, nell’intera Venezia Giulia, persino tra i fuoriusciti, serpeggiava un’inquietudine palpabile. Alla prefettura e alla questura di Gorizia, nonché al Ministero degli Interni a Roma, si sprecarono fiumi di inchiostro per produrre pile di documenti, ingiunzioni, rapporti, note informative fin dalle ore seguenti la sua scomparsa ripetendosi a ogni successivo anniversario di morte. I segretari politici, i commissari, le talpe di tutto l’Isontino avevano ordine di riferire a Roma quale chiesa avesse suonato le campane, dove si fosse celebrata una messa a suffragio e in quale lingua, o se qualcuno avesse commemorato il defunto. Si registravano persino le visite in cimitero e i fiori posti sulla sepoltura. Il dittatore era terrorizzato dalle conseguenze del proprio agire: una minaccia esplicita fu rilevata in un mazzo di garofani rossi legato da un nastro rosso, comparso sulla tomba il giorno dei morti, un “problema” che avrebbe tenuto impegnati gli organi dello Stato per parecchi mesi.
Così comunicava il prefetto goriziano al Ministero degli Interni il 9 novembre 1937:
[…] in occasione della commemorazione dei defunti, la tomba del noto musicista irredentista sloveno Bertossi Luigi ha ricevuto l’omaggio di moltissimi fiori e la visita di esponenti dell’irredentismo sloveno, nonché di numerosissime persone, fra cui molte donne.
Sulla tomba è stato anche deposto un mazzo di garofani rossi, legato da un nastro rosso. Il mazzo è stato subito fatto togliere e sono in corso indagini per identificare le persone che ve lo hanno collocato.
Il 3 febbraio del 1938 il Ministero sollecitava la prefettura di Gorizia a stendere un rapporto sull’autore dell’infame reato. Il prefetto replicava il 10 febbraio annunciando l’esito infruttuoso delle indagini.
Eppure la faccenda non poteva dirsi chiusa. All’approssimarsi del primo anniversario di morte, nel febbraio 1938 una circolare del questore fece il giro di tutte le stazioni di polizia del circondario: si raccomandava di tenere d’occhio le chiese e le funzioni per impedire che chicchessia osasse ricordare il defunto. Tuttavia, la massima sorveglianza era da riservarsi al camposanto di Gorizia, ultima dimora di Lojze Bratuž: bisognava evitare nella maniera più assoluta il ripetersi dell’increscioso episodio verificatosi nel giorno di Ognissanti, quando una mano sconosciuta aveva posto sulla tomba un mazzo di ostili garofani rossi, tenuti insieme da un nastro ostilmente rosso anch’esso.
La tomba rimase priva di croce e nome fino agli anni del dopoguerra. Riportare il nome sloveno Lojze Bratuž era proibito per legge e la famiglia non considerava come suo il nome italianizzato Luigi Bertossi.
La tragedia di Lojze Bratuž fu conseguenza di un ragionamento distorto. Dobbiamo prestare attenzione anche oggi ai motivi di fondo: il dittatore, qualunque esso sia, vede nel diverso da sé il pericolo e il nemico, ragion per cui si adopera per eliminarlo. Non possiamo abbassare la guardia di fronte al pernicioso inanellarsi di questi atteggiamenti mentali: è una catena che comincia con la non conoscenza e la paura dell’altro per terminare con la negazione del diritto alla vita.